CAPITOLO 17

 

Il mattino dopo Boschi giunse in ufficio quando mancavano pochi minuti alle otto. L'attesa per una risposta, l'ultima, gli toglieva il sonno. Tuttavia non lasciava trapelare nulla: accettava le sfide, ma non doveva coinvolgere nessun altro.
Accese il computer per controllare la posta elettronica: nulla. Un istante dopo arrivò Palumbo.
“Buongiorno Mario. Hai già preso il caffè?”
“No, ti aspettavo. Andiamo al Bar delle Palme.”
Il vicecommissario intuì, nel tono delle parole del suo amico e superiore, delle probabili novità che gli sarebbero state svelate a tempo debito. La sensazione si rivelò giusta, poiché nel breve tratto che separava il commissariato dal bar Boschi gli disse:
“Luca, tu ed io dobbiamo parlare.”
Raggiunsero il bar, presero il caffè in perfetto silenzio, quindi si avviarono sulla spiaggia. Non si trovavano molti bagnanti a quell'ora, incrociarono solo un paio di pescatori che Palumbo conosceva.
Il commissario prese la parola:
“Devo raccontarti una lunga storia.”
Con calma, prendendosi tutto il tempo necessario, Boschi spiegò al suo vice come era arrivato ad identificare il cinese, cosa si celava dietro all'indagine che stavano conducendo. Ma soprattutto gli confidò l'ultimo sospetto.
Palumbo, seppur formato da mille battaglie contro la malavita, ebbe un autentico brivido.
Se le impressioni del commissario si fossero rivelate esatte, si sarebbero trovati di fronte a qualcosa di terribile.
Qualcosa che Palumbo si rifiutava di credere.
Si avviarono verso il commissariato. Boschi concordò con Palumbo le prossime mosse, sarebbero state probabilmente quelle decisive.

Appena arrivò in ufficio corse a controllare il computer: il messaggio che aspettava era arrivato.

“Commissario, le trasmetto in allegato il risultato della Sua richiesta. Non è stato semplice, poiché la superficie da esaminare era visibilmente alterata da bruciature ed ustioni di vario grado. Tuttavia le indicazioni che Le mando sono chiare ed inequivocabili.
Le rinnovo la mia disponibilità per quanto possa ancora essere utile alla Sua indagine.
Con rinnovata stima

Dott. Maurizio Sartorelli”

Aveva appena ricevuto le impronte digitali ed il risultato dell'esame del DNA della persona alla quale appartenevano i resti umani raccolti al colle di Santa Marta.
Chiamò la Scientifica, aveva bisogno di un altro riscontro. Bastarono pochi minuti: quel minuscolo pezzo di plastica nera con le lettere “it-ar”, trovato il giorno dell'esplosione, aveva rivelato a Boschi la verità tanto cercata.
I resti raccolti poco tempo prima da Colasanti erano gli stessi che avevano maneggiato quel sacco di plastica nera.
Non aveva coraggio di fare quell'ultima telefonata, ma doveva andare fino in fondo. Purtroppo era quasi certo di conoscere la risposta.
Chiamò il direttore del carcere Regina Coeli e gli chiese di inviargli i dati personali e clinici di Kahlgibran Fahrid, detenuto in semilibertà. Aveva bisogno di un riscontro.
Chiuse la comunicazione, si alzò ed uscì dal commissariato senza dir nulla.
Se ne andò a passeggiare sulla riva del mare, assorto nei suoi pensieri, incurante dei bambini che entravano in acqua provocando una miriade di schizzi, che a volte lo raggiungevano. Non fece caso alle famiglie in vacanza, alle giovanissime ragazze in topless che si lasciavano baciare dal sole, agli uomini con il fisico da palestra da mostrare alle turiste.
Aveva bisogno di mettere in fila i pensieri, non poteva credere che quel sospetto che gli occupava la mente da troppo tempo, che aveva confidato al suo vice, potesse trovare conferma. Eppure era quel che stava accadendo.
D'istinto prese il cellulare e chiamò Tiziana. La ragazza stava lavorando.
“Buongiorno amore mio. Che fai? Lavori?”
“No, sto passeggiando sulla spiaggia.”
“Mascalzone! Appena ti lascio solo te ne vai ad ammirare le belle ragazze, eh? Ma se ti prendo!”
Tiziana lo rimproverava scherzosamente, ma subito capì che il tono del commissario non era di quel genere. Aggiunse:
“E' successo qualcosa?”
Boschi rispose:
“Io credo di sì. L'indagine che sto seguendo si avvia alla conclusione, ma alla conclusione che mai e poi mai avrei voluto accettare.”
“Dio mio, amore! Non farmi stare in pensiero, rabbrividisco al solo ricordo di quel che hai rischiato lo scorso sabato!”
“No, non preoccuparti. Non è in pericolo la mia vita, né quella di altri. Ma non credevo che fosse possibile arrivare a tanto.”
“Amore mio, ho tanta paura. Ora smetto di lavorare e vengo da te.”
“E faresti un grosso errore. Anzitutto perchè il tuo lavoro è là, in secondo luogo perchè l'angoscia che ho dentro nasce da quel che ho scoperto. Anzi, fai una cosa: organizzati il lavoro al meglio. Se le mie ipotesi trovano conferma, il giudice chiude il caso e la prossima settimana ce ne andiamo a fare una bella vacanza. Che ne dici?”
“D'accordo. Ma voglio la certezza che non ti accada nulla, non dirmi così solo per non farmi stare in pensiero.”
“Te lo giuro. Stai tranquilla, se non ci sono imprevisti vengo a pranzo alla pensione.”
“Va bene. Un bacio.”
Si era confidato con la donna che amava. Era pronto.
Tornò in commissariato, Menichelli lo chiamò:
“Commissario, è arrivato un fax per lei. Lo trova sulla sua scrivania.”
“Va bene, grazie.”
Entrò in ufficio e vide la prima pagina del fax: l'intestazione non lasciava spazio a dubbi.
Chiamò Menichelli:
“Non ci sono per nessuno.”
Poi chiamò Palumbo:
“Luca, raggiungimi in ufficio. Dì a Menichelli di non passarti telefonate.”
Presero posto al grande tavolo per le riunioni e Boschi mostrò il fax al suo vice.
“Come puoi vedere tu stesso, il direttore di Regina Coeli ci ha mandato i dati personali e clinici di Fahrid Kahlgibran. Ci sono anche le informazioni sul suo DNA, unico dato inequivocabile.”
Si alzò ed andò alla sua scrivania, quindi tornò al tavolo con un altro fascio di fogli.
“Questa è la stampa del messaggio di posta elettronica e relativi allegati che mi ha inviato stamane il medico legale. Ha identificato le impronte digitali ed il DNA dei resti umani trovati al colle dagli uomini di Colasanti. Guarda tu stesso.”
Palumbo rimase assorto per qualche istante, quindi sbattè i fogli sul tavolo e si alzò di scatto:
“No!”
Con calma, quasi con rassegnazione, Boschi rispose:
“E' quello che ho pensato anch'io, anzi speravo che non fosse così. Abbiamo identificato il fratello di Fahrid Kahlgibran, quei resti appartengono a lui. Il nome di Ahmed Kahlgibran, che io stesso ho letto nei registri della Di Silvestro, appartiene a quella persona che Fahrid non vede da anni ed anni. E che non rivedrà più.”
Palumbo guardò il commissario e rispose:
“E quindi tu pensi che sia andata come mi hai confidato stamattina?”
Boschi replicò:
“Ormai ne sono certo. Tu procedi come abbiamo stabilito, io chiamo il giudice ed il questore. E' ora di far sapere come sono andate le cose. Non far chiamare i giornalisti, niente conferenze stampa, si creerebbe un caos che non è proprio il caso di avere. Ora vai, ci vediamo tra un'oretta.”
Il vicecommissario chiamò Grossi e partì, sapeva dove dirigersi. Le indicazioni del commissario erano state chiare.
In quel momento Boschi si sentì come svuotato. Aveva vinto la sfida che il destino gli aveva messo sulla strada, ma era stata una vittoria amara. Avrebbe preferito perderla, piuttosto che ottenere quel risultato. Ma le cose erano andate così e lui non poteva farci nulla.
Chiamò la questura, dovette faticare non poco per vincere le resistenze di Riti (“commissario, io non posso metterla in contatto con il dottor Mazzotta se non ne conosco la ragione.....lei sa bene che abbiamo delle procedure da rispettare....ho capito, farò un'eccezione.....ma solo stavolta”) e riuscire a parlare con Mazzotta (“mi dica che ha chiuso il caso e vengo immediatamente. Come? Ci siamo? Non dubiti, arrivo di corsa. Come dice? Tra un'oretta? Non mancherò, naturalmente avviso anche il Prefetto. Dice di no? Lo farò successivamente? D'accordo, a tra poco”), quindi avvisò il giudice, il quale garantì la sua presenza.
Aveva fatto tutto quel che doveva fare. Uscì dal commissariato ed andò al Bar delle Palme, un buon caffè era necessario. Di lì a poco avrebbe dovuto intrattenere un uditorio importante ed attento.
Rientrò in ufficio e mise ordine nella sua mente. Ormai era tutto chiaro, limpido, senza incertezze.
Dopo circa un'ora, come concordato, Menichelli bussò alla porta:
“Commissario, ci sono il signor questore ed il giudice.”
Boschi andò loro incontro:
“Accomodatevi. Giudice Berardi, le garantisco che oggi pomeriggio lei potrà chiudere il caso. Lo dico alla presenza del mio diretto superiore, il dottor Mazzotta, che potrà riferire al signor Prefetto ed indire una conferenza stampa se lo riterrà opportuno. Conferenza stampa dalla quale chiedo di essere esentato, poiché non amo questo genere di manifestazioni e mi sento molto a disagio.”
Il questore lo rassicurò:
“Non si preoccupi, commissario. Se davvero possiamo chiudere il caso, non avrò alcuna difficoltà ad esentarla. Ma ripeto, adesso sono importanti i risultati.”
In quell'istante si sentì bussare alla porta. Comparve Palumbo.
“E' permesso?”
Boschi rispose:
“Prego, prego. Fai accomodare il nostro ospite, poi chiama la casa circondariale di San Donato.”
Il vicecommissario entrò a prese posto al tavolo delle riunioni. Accanto a lui, con aria mite, quasi rassegnata, sedeva un uomo magro, le spalle curve, le mani ossute e callose di chi sta a contatto con la terra, la lavora, la ama. Il questore chiese a Boschi:
“Commissario, chi è quest'uomo?”
Senza attendere la risposta di Boschi, l'uomo sollevò la testa, guardò Mazzotta negli occhi e disse:
“Mi chiamo Fahrid Kahlgibran.”
Il questore conosceva quel nome, lo aveva sentito all'epoca dell'indagine diretta da Magnani, il suo ex compagno di corso. Si rivolse al giudice e gli domandò:
“Dottor Berardi, che significa?”
Il giudice non era informato, aveva solo ceduto alle insistenze di Boschi per dare quel permesso a Fahrid. Si limitò a dire:
“Dovremmo chiederlo al commissario. Io non ne so molto più di lei.”
A quel punto Boschi si inserì nella conversazione:
“Tra un momento vi spiegherò tutto. Ancora un attimo di pazienza, il vicecommissario attende il nostro ultimo ospite.”
Un furgoncino blu scuro, con i vetri oscurati, si fermò davanti all'ingresso del commissariato. Ne discesero due agenti armati, che aprirono il portellone posteriore. All'interno, altri due colleghi si mossero, scesero dal furgoncino: tra di loro, in manette, un uomo dai chiari tratti cinesi.
L'ispettore Vicari andò loro incontro e li fece entrare. I cinque uomini entrarono in commissariato e raggiunsero l'ufficio di Boschi.
A quel punto il commissario prese la parola.
“Signor giudice, signor questore, vi presento Mark Steffner, al secolo Tao-Ming, cittadino cinese con falsi documenti americani.”
Il cinese si accorse della presenza del pachistano, fece uno scatto come per lanciarsi su di lui, ma i quattro agenti di custodia lo fermarono. Boschi continuò il suo racconto.
“Il qui presente Tao-Ming, arrestato per un omicidio e due tentati omicidi, uno dei quali ai danni del sottoscritto, è un personaggio che unisce questa lunga indagine ad un altro caso, chiuso quattordici anni fa dalla questura di Torino.”
Il questore Mazzotta si fece più attento. Aveva capito di cosa si stava parlando.
“In quel periodo io ebbi l'onore e la fortuna di far parte di una squadra operativa guidata da colui che è stato il mio maestro e che mi ha permesso di essere qui: il questore Achille Magnani. A quei tempi era un vicecommissario, io ero un agente come tanti altri in servizio presso la questura. Era in atto un traffico d'armi tra la Cina ed i Paesi dell'est europeo, un traffico d'armi che, lo scoprimmo dopo, rendeva piuttosto bene. Un fiume di denaro, che veniva periodicamente veicolato nell'Europa del nord, in particolare verso le banche tedesche, ad opera di un filippino poi diventato cittadino americano: un tale Nathan Suzette, sulla cui storia personale sorvolo perchè, pur essendo lunga ed oltremodo interessante, ci potrebbe distogliere dal filo principale del discorso. Stiamo parlando di un faccendiere giovane ma già molto scaltro, bisogna dargliene atto. Come già detto, non spostava mai ingenti somme di denaro, ma piuttosto modeste quantità, più facili da piazzare in contanti. Per questo, anche e soprattutto per questo, si muoveva attraverso aeroporti apparentemente secondari e comunque di limitata estensione, cambiava spesso volo per disperdere le sue tracce. Nel corso di un controllo del tutto casuale all'aeroporto di Pescara, la polizia gli trovò una ventiquattrore di contanti, dei quali il filippino non seppe spiegare la provenienza. Fu arrestato, ma in carcere rimase per breve tempo perchè cominciò a collaborare. Sapeva di essere un pesce piccolo, se la sarebbe cavata. Ma il magistrato titolare dell'indagine voleva i nomi dei capi, dei pesci grossi. Suzette all'inizio non diede quei nomi, sapeva bene che con una simile ammissione sarebbe morto in carcere; i personaggi come lui servivano vivi. Ma quando venne a sapere una notizia della quale vi accennerò tra poco, capì che la partita era persa. Fece qualche nome, gli vennero concessi gli arresti domiciliari e così prese in affitto un monolocale in un palazzo qui vicino. Quindici metri quadrati in tutto, al decimo piano. Ma si sentiva come in cella, voleva la sospirata libertà. E finalmente cedette.
La polizia italiana, in collaborazione con l'Interpol, arrestò i due capi dell'organizzazione, mentre si trovavano ad Hong Kong ed erano pronti a partire per Macao. Si arrivò così alla base operativa in Pakistan, a dirigere la quale si trovava il signor Fahrid Kahlgibran, uno dei due luogotenenti. L'altro è il qui presente Tao-Ming conosciuto come Mark Steffner, il quale agiva con funzioni di controllo sulle varie operazioni. Fahrid Kahlgibran si trovava, fino a poco tempo fa, in regime di semilibertà presso l'istituto Regina Coeli di Roma, dal quale usciva nelle ore diurne, per andare a prestare servizio nella cooperativa Bosco Fiorito in qualità di giardiniere.”
Il questore ed il giudice lo interruppero:
“Commissario, qual è il legame tra Tao-Ming, Nathan Suzette e Fahrid Kahlgibran?”
Boschi sorrise e continuò.
“E qui vengo al punto, signori. Dopo l'arresto dei capi e lo smantellamento dell'organizzazione, il solo personaggio rimasto in libertà fu proprio Tao-Ming, d'altra parte se fosse stato catturato non ci sarebbero stati grossi capi d'imputazione per lui, almeno all'apparenza. E' bene però precisare una cosa. Uno dei princìpi base dell'organizzazione, che veniva inculcato a tutti i componenti, era il concetto della cancellazione : quando una cosa, un personaggio, non servono più, non hanno più una specifica funzione, non vanno eliminati. Vanno cancellati .”
Il questore ed il giudice chiesero ancora:
“E come distinguevano le due azioni?”
Il commissario replicò:
“Me lo ha spiegato il signor Kahlgibran, che sono andato a trovare a Roma pochi giorni fa. Quando lui raccoglie le foglie secche, le potrebbe eliminare ammucchiandole, che so, in un sacco di plastica. Ma questo vorrebbe dire spostare le foglie dall'albero e riporle in un altro posto, ossia lasciare alle foglie una loro collocazione, mi spiego? Ma le foglie secche non servono più, dunque non meritano neanche una loro collocazione.”
Il commissario incrociò lo sguardo di Kahlgibran, che sorrise in segno di approvazione. Proseguì.
“E dunque le foglie secche vanno bruciate, ossia cancellate . Forti di questo concetto, torniamo a pensare all'organizzazione che trafficava armi. Perchè si era riusciti a smantellarla? In primo luogo, perchè la polizia aveva avuto delle informazioni da Nathan Suzette. Ecco quindi che si presenta la necessità di cancellare Nathan Suzette e tutto ciò che a Nathan Suzette riconduce. Ad esempio i suoi familiari. Ma se scorriamo la scheda personale di Suzette, ci accorgiamo che egli ha perso entrambi i genitori molto presto, ha solo un fratello. E dunque non c'è da meravigliarsi se, poco tempo dopo, costui viene trovato incaprettato e bruciato vivo nella sua auto. Ed è questa la notizia in seguito alla quale Suzette fa i nomi chiave.”
Tutti i presenti ebbero un moto di disgusto. Il questore disse:
“In Italia si sarebbe detto un delitto di mafia, magari immaginandolo in Sicilia.”
Il commissario riprese:
“Esatto. Ma in questo caso, come abbiamo detto, la necessità era quella di cancellare . Ecco quindi la necessità di dover colpire anche Nathan, qui entra in gioco il nostro gentile ospite. Steffner, lo chiameremo così, saputo che Suzette fruisce degli arresti domiciliari in Italia, lo raggiunge. Riesce a guadagnarsi la fiducia del portiere dello stabile, entra nel palazzo e raggiunge il decimo piano. Apre la porta con un calcio, del resto è piuttosto leggera, io stesso l'ho vista. Suzette, colto di sorpresa, non ha il tempo di reagire. E' disarmato, è agli arresti domiciliari, non può ricevere visite tranne in rari casi, che vengono comunque annunciati preventivamente dal portiere. A farla breve, Steffner lo immobilizza, gli mette uno straccio in bocca per impedirgli di urlare, stacca l'elettricità. Inserisce nella bocca del filippino il tubo del gas della cucina, gli tura il naso, fino a provocargli la morte. A questo punto non resta che cancellarlo , dopo aver manifestato tutto il suo disprezzo sputando su quel corpo. Lo solleva, va alla finestra, lo gira a faccia in giù e lo lascia andare. L'impatto con il cemento del cornicione, dieci piani più in basso, cancellerà per sempre quel volto. Sono le dodici e un quarto, il portiere sta passando l'aspirapolvere ai piani, se ha sentito un tonfo sordo lo potrà sempre attribuire all'officina meccanica accanto al palazzo. Steffner lascia il monolocale, scende per mezzo di uno degli ascensori, esce dal portone sul retro.”
Il giudice si voltò a guardare il cinese. Lo avrebbe fatto marcire in un carcere di massima sicurezza per il resto della vita.
“Nel frattempo, in Oriente, l'attività di rinascita dell'organizzazione è in pieno svolgimento. Occorre trovare un nuovo luogotenente, una nuova base di smistamento. Steffner ha con sé una montagna di denaro, ricordiamo che Suzette, prima dell'arresto, aveva compiuto parecchi viaggi, raggiungendo banche che i capi dell'organizzazione non hanno mai rivelato agli inquirenti. Il cinese ha con sé i codici dei conti correnti, ha gioco facile nel ritirare il denaro per assoldare nuovi personaggi. La scelta cade su Ahmed Kahlgibran, pachistano, da anni in lite con la famiglia e soprattutto con il fratello Fahrid, più grande di lui, che ha deciso di confidare tutto ai giudici per pagare così le sue colpe nei confronti della società.”
I presenti si voltarono a guardare l'uomo. Fahrid, coprendosi il viso con le mani, singhiozzava e ripeteva:
“Povero fratello mio, così debole d'animo. Ti sei lasciato convincere dalle persone sbagliate.”
Il commissario provò una gran pena. Quell'uomo stava pagando un prezzo troppo alto per le colpe che aveva, eppure lo affrontava con dignità. Lo sconforto nasceva dal non essere riuscito a salvare il fratello, evitandogli quell'incontro. Boschi continuò.
“Ahmed Kahlgibran, il cui cervello è ormai saturo dei princìpi di esaltazione che il cinese è riuscito ad inculcargli, avrà un compito particolare: sarà mandato in Italia, in particolare dove si trovano le armi. Dovrà frequentare quel posto, anche usando il suo vero nome: casomai qualcuno lo dovesse mettere in relazione con quanto accaduto in Cina e Pakistan, potrà sempre dire che ha allontanato il fratello per non intraprendere la stessa strada e commettere gli stessi errori. Vuole un lavoro onesto.
Ma nessuno conosce il suo nome. Arriva in Italia, raggiunge Pescara, riesce ad individuare la sua meta: si tratta dell'azienda dei fratelli Di Silvestro, da anni deposito giudiziario a servizio dell'intera regione e non solo. Ahmed, abilmente, conquista la fiducia di tutta la famiglia: è bravo, si adatta a fare tutti i lavori più umili, più pericolosi, a qualsiasi ora. Scarica i furgoni, prepara le batterie per gli spettacoli pirotecnici, confeziona cartocci, insomma impara piuttosto bene il mestiere. Ha libero accesso a tutta l'azienda, come gli altri dipendenti del resto. Si accorge che nessuno si reca mai nella casamatta n. 26, così un giorno la cosa lo incuriosisce. Ed è là che trova le armi. Quella sera stessa, attraverso Internet, informa Steffner della cosa: nulla potrà essere recuperato, non si riuscirebbe a tirarlo fuori. Ormai tutto quel materiale ha esaurito la sua funzione.”
Tutti i presenti furono scossi da un brivido, non volevano accettare l'inevitabile conclusione. Fahrid piangeva senza ritegno, ora che aveva scoperto la terribile verità. Sulla porta dell'ufficio, non vista dal commissario, era giunta Tiziana.
Il questore pose la domanda che nessuno voleva fare.
“Quindi il passo successivo sarebbe stato applicare il principio base dell'organizzazione?”
Boschi emise un lunghissimo sospiro, quasi a voler prendere coraggio.
“Già. Si trattava di cancellare . Ahmed conosce le conseguenze di quel gesto, ma in quel momento si fa strada in lui l'idea di morire da eroe. Morire, nella sua mente, per un ideale. Un ideale che è pura follia.”
Il giudice ed il questore non staccavano gli occhi da Boschi. Ormai il commissario era giunto alla fine del racconto, continuare non era più un peso.
“La mattina successiva, Ahmed arriva in azienda. Come ogni giorno. Comincia il suo lavoro, cerca di non far trasparire alcuna emozione. Alle dieci e un quarto, come ha avuto modo di constatare, gli operai si fermano per colazione. Addenta il suo panino, beve una birra, poi tutti tornano al lavoro.
Poco dopo, senza dare nell'occhio, si allontana dall'officina e raggiunge la casamatta n. 26. Non ne uscirà più, i vigili del fuoco hanno recuperato solo alcuni resti.”
Fahrid si rivolse al commissario:
“Potrei...potrei vederli?”
Ma Boschi rispose:
“Mi creda signor Kahlgibran, è meglio di no.”
Il pachistano riprese:
“Può dirmi almeno che resti sono?”
Pacatamente, il commissario riprese:
“Un pezzo di avambraccio ed una mano, un pezzo di addome, nulla di più. L'identificazione è stata possibile solo grazie al test del DNA, eseguito dal medico legale. Lo abbiamo confrontato con i suoi dati, che ci hanno fornito da Roma.”
Fahrid Kahlgibran sembrò rassegnato.
“Commissario, la poca vita che mi resta non ha più un senso. Le vorrei chiedere un favore, se può accontentarmi.”
“Mi dica.”
“Ecco, quando avrò finito di scontare la mia pena, lasciatemi vivere alla cooperativa. Là ho le mie piante, i miei fiori. Mi restano solo loro, mio fratello è morto vittima delle cattive azioni di altri.”
Il giudice Berardi, che aveva ascoltato in silenzio, rassicurò l'uomo.
“Signor Kahlgibran, lei sta dando una lezione di civiltà a quanti, come lei, commettono degli errori. Nella vita ci si può redimere, si può pagare il proprio debito e poi tornare a vivere. Farò di tutto per soddisfare la sua richiesta.”
Il pachistano disse semplicemente:
“Grazie.”
Il giudice si rivolse al questore:
“Per quanto mi riguarda, il caso è chiuso. Chiederò il massimo della pena per Tao-Ming, oggi stesso darò disposizioni perchè venga trasferito in un carcere di massima sicurezza.”
Il questore si alzò, si avvicinò a Boschi e gli strinse vigorosamente la mano.
“Sapevo che era bravo, ma non fino a questo punto. Voglio fare pubblicamente i complimenti a lei ed a tutti i suoi colleghi. Riferirò al Prefetto e poi convocheremo una conferenza stampa, dalla quale sarà esentato come mi ha chiesto. La prego, tuttavia, di inviarmi un dettagliato rapporto.”
Boschi si sentì sollevato. Rispose:
“Le vorrei chiedere, se possibile, una settimana di ferie.”
Il questore sorrise.
“Mi sembra il minimo. Da dopodomani lei è in permesso per quindici giorni.”
“Grazie signor questore.”
Sulla porta, Tiziana sorrideva felice. E fu allora che il commissario la notò.

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